Come Marion, anche Annie Vivanti prima dei vent’anni era stata un’artista di café chantant; e con Marion, adolescente ed amorale stellina delle ribalte, nasce il suo primo, più celebre e longevo personaggio, che nella finzione letteraria incarna l’anima della sua autrice, diviene la maschera che insieme cela e svela il sottile gioco tra finzione e realtà presente in tutta la sua esperienza artistica. Il pubblico decretò il successo del romanzo proprio grazie alle pieghe morbose di questa storia di perdizione, nonché per gli aspetti autobiografici che conteneva, mentre un condizionamento moralistico impedì all’establishment della letteratura di quegli anni di accettarlo in tutto il suo valore. Eppure quest’opera senza morale e senza lieto fine, libera d’ogni giudizio, possiede una eccezionale attualità, uno sguardo modernissimo. Perché tratta di un personaggio estremo, raccontato col particolare realismo di chi osserva la scena come dall'interno dell'anima di chi la vive, con gli stessi occhi di Marion, per la quale il progressivo scivolare nella corruzione e nel cinismo è un percorso inevitabile, e quindi normale. E in questa normalità , a suo modo semplice, sta la tragedia della storia. Marion non è una Traviata, non c'è per lei pietà o compassione, né il gusto di trattarla come un fiore nel fango, una figlia del peccato che si perde in una quotidiana dissipazione, com'è nella retorica degli angeli del male, o nelle tante opere di denuncia sociale di quei tempi. E pur nella ricchezza dell'oggettistica e dei particolari (quelli che Eleonora Duse chiamava «adorabili particolari») il racconto resta asciutto nella narrazione, relegando ogni elemento accessorio a fare da sfondo a un'azione scarna, dai dialoghi brevi, essenziali.